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venerdì 30 gennaio 2015

"Basta Rai, basta canone"


Il Tea Party Italia ha organizzato un presidio in Piazza San Babila per protestare contro gli sprechi dell’emittente pubblica, chiedendone la privatizzazione

Meno Stato, meno tasse, più libertà. È il mantra del Tea Party, che quest’oggi protesta a Milano, in Piazza San Babila, contro la Rai.
L’acronimo “Tea” sta per “taxed enough already” (“tassati già abbastanza”) e per molti una delle imposte più indigeste da pagare allo Stato è proprio il canone dell’emittente pubblica. 
E mancano ormai pochi giorni per completare il versamento: entro la fine del mese gli italiani sono chiamati a scucire 113.50 euro.
Il sit-in chiede una cosa soltanto: rottamare – ma per davvero – la Rai. A organizzarlo, nel cuore della città, è Fabio Bertazzoli, coordinatore Lombardia del Tea Party, che presenta la posizione del movimento: “La Rai è un simbolo. È difficile spiegare alla gente come l’intervento dello Stato nell’economia si traduca in qualcosa di inefficiente e gravoso per i cittadini, in quanto ostacola la concorrenza. Un esempio? L’acqua. Se fosse gestita da competitor privati il sevizio sarebbe più efficiente e costerebbe meno. Ma le persone si spaventano perché pensano che il privato sia cattivo e voglia solo guadagnarci. E infatti il referendum del 2011 è andato come è andato…”.
L’iniziativa, appoggiata da oltre venti sigle, è stata lanciata a settembre, a Roma, da Edoardo De Blasio (del Partito Liberale Italiano), che insieme allo stesso Bertolazzi ha lanciato la raccolta firme, che saranno portate all’attenzione del Parlamento e di Matteo Renzi. “Quando parlo del canone uso la metafora del pizzo, che viene chiesto da uno Stato ladro. Di fatto, siamo costretti a pagare una cosa che non vogliamo, anche perché sennò veniamo sanzionati. È una presa in giro e, fondamentalmente, è un’estorsione di Stato, legale” continua il promotore del sit-in, che prosegue: “Dire che il servizio offertoci dalla Rai è scadente è quasi un complimento. Ma perché io devo pagare per un servizio del genere, che non voglio e che – per di più – posso avere anche gratis?”.
Un pensiero comune, ripetutoci da chi ha firmato la petizione fermandosi al gezebo allestito dagli attivisti: “È veramente l’ora di dire basta e sono contenta che qualcuno stia provando a fare qualcosa. Troppi soldi e troppo sprechi, per avere poi un’offerta pessima” protesta una signora, spalleggiata poi da un ragazzo: “Poi adesso inizia Sanremo. Bella roba: cachet milionari pagati di tasca nostra.” E ancora: “Altro che mamma Rai, è bisnonna Rai. È tempo che vada in pensione…”, “Io non la guardo mai, ma proprio mai. Però devo pagarla solo perché ho la televisione, sennò mi multano. Se non è un’ingiustizia questa…”.
Bertazzoli ricorda che con un referendum dei radicali (era il 1995) gli italiani avevano chiesto la privatizzazione della Rai. Una volontà poi aggirata dallo Stato. L’organizzatore si affida poi ai numeri: “Secondo il bilancio del 2012 hanno incassato circa 1.755 miliardi di euro di canone, più 800 milioni di pubblicità. Per un totale di 2.5 mld. Ma le perdite sono state di 400 milioni, ripianate con la tassazione generale: il paradosso è che noi paghiamo due volte. Ci perdiamo sempre”.
E continua: “Poi, è vergognoso che l’informazione sia gestita in questo modo. Quello della Rai, in realtà, non è un servizio pubblico. In un Paese civile e democratico l’informazione deve essere davvero libera e davvero pluralista, non in mano alla partitocrazia. Che la televisione di Stato dia un servizio informativo a favore dei partiti, con i nostri soldi, è un qualcosa di intollerabile”.
Dunque, rottamare e privatizzare la televisione pubblica: “Vendendo la Rai ai privati prendiamo tre piccioni con una fava: far risparmiare agli italiani 1 miliardi e 700 milioni di canone, evitare continui ripianamenti e permettere allo Stato di incassare soldi utili per abbattere il debito pubblico. La Rai, infatti, ha un valore e la sua vendita potrebbe rimpinguare le casse statali, con la positiva conseguenza di un allentamento della pressione fiscale. Ecco, il tutto deve essere inquadrato in una riforma del sistema delle telecomunicazioni che persegua un modello liberista, vincendo i monopoli.” chiosa Fabio Bertazzoli.

mercoledì 8 ottobre 2014

la famiglia modello


Ti voglio raccontare una storia. (copiata dal sito tea party) La protagonista è una donna lavoratrice: si fa in quattro per la sua professione e nell'ultimo anno ha portato a casa 15.488 euro netti. Non è molto, ma potrebbe bastarle per vivere serenamente. Se non fosse che... La donna è sposata da molti anni con un uomo pigro e sfaticato, che passa il suo tempo in bar malfamati. Oltre ad approfittare di vitto e alloggio, senza contribuire per nulla alle spese di casa, l'uomo si fa dare dalla moglie una parte di quello che lei guadagna: solo nell'ultimo anno ha ricevuto da lei 3.975 euro. Ripete che si tratta del "pagamento" dovutogli per lo svolgimento dei "lavori di casa", ma questi lavori in realtà non li fa quasi mai, se non in qualche rara occasione (comunque decisamente male e molto lentamente). Se la donna rifiuta di consegnare quei soldi, il marito diventa molto violento e passa alle minacce fisiche, che sfociano in drammi qualora scopra tentativi di nascondere qualche banconota guadagnata con gli straordinari. Inoltre la donna, inutile negarlo, è ancora innamorata del suo aguzzino, e a volte si sorprende addirittura a pensare che è "contenta" di dargli quei soldi, o che è suo "dovere" farlo. I soldi in teoria rimanenti alla lavoratrice dopo la "paghetta" del marito sarebbero ancora sufficienti per vivere in modo dignitoso. Tuttavia nella famiglia ci sono anche quattro figli maggiorenni, tutti nullafacenti e viziati come il padre, di cui ricalcano il comportamento in tutto e per tutto. Quest'ultimo obbliga la moglie a "condividere" un po' dei suoi soldi anche con i quattro giovanotti, soprattutto con il primogenito. Fare "i conti in tasca" ai quattro ragazzi non è facile: ognuno chiede somme differenti, con modalità e tempi differenti, e la donna non ha certo il tempo per tenere una contabilità precisa e dettagliata. Quello che è certo è che durante lo scorso anno la lavoratrice, nel complesso, ha "versato" al resto della famiglia ben 7.899 euro! Le sono rimasti solamente 7.589 euro: meno della metà di quello che aveva faticosamente guadagnato ... e a malapena sufficienti per la sopravvivenza (si tratta di circa 632 euro mensili)! La storia è già abbastanza cupa, ma devi sapere che c'è dell'altro! Il marito, infatti, è anche una persona estremamente possessiva e fastidiosa e impedisce alla moglie di lavorare con serenità: la costringe a svolgere commissioni per lui in orario di ufficio, la chiama decine di volte al giorno facendole scenate di gelosia, le scrive continuamente messaggi per controllarla, con l'effetto di farle perdere concentrazione e produttività. Ovviamente gran parte delle scocciature in questione riguardano i soldi: con un'infinità di scuse il marito cerca di tenere sempre sotto controllo le entrate della poveretta; ma in molti altri casi si tratta di richieste del tutto assurde, spesso spacciate per premura nei confronti di lei. Anche i quattro figli, emulando il genitore, passano la giornata ad infastidire la madre e a sobbarcarla di compiti inutili: per la poveretta lavorare è sempre più difficile, e le sue possibilità di carriera ne risentono. Ancora non basta! Il marito, oltre a non lavorare, spende moltissimo nel corso delle sue giornate: beve come una spugna, offre da bere ai loschi individui con cui si accompagna, scommette sulle corse e passa ore davanti ai video-poker! Solo nell'ultimo anno il disgraziato, a fronte della sua "paghetta" di 3.975 euro, ne ha spesi ben 7.514, quasi il doppio! Per sostenere questo stile di vita è costretto a chiedere continuamente prestiti ai compagni di bevute e di giocate, e credito ai baristi! Paradossalmente, intanto, ha utilizzato i soldi della moglie per costruirsi nel corso degli anni una vasta collezione di francobolli rari, del valore stimato di oltre 4.500 euro, che tiene nascosti in cantina. Di nuovo, anche i quattro figli emulano il padre, sperperando più di quanto incassano, indebitandosi fino al collo e accumulando nel frattempo di nascosto una raccolta di fumetti da collezione. La situazione non può andare avanti così: le spese dell'uomo e dei figli aumentano sempre di più, mentre lo stipendio della donna, a causa del suo scarso rendimento sul lavoro dovuto alla mancanza di concentrazione, negli ultimi anni è diminuito. Inoltre l'ammontare di debito accumulato è talmente alto che oramai i soldi che l'uomo estorce alla moglie sono a malapena sufficienti per pagare gli interessi ... e così altri debiti vengono fatti solamente per poter pagare i debiti precedenti, a tassi sempre più elevati, in una spirale apparentemente senza uscita! In una notte di tempesta, dopo che si è sparsa la voce di una grossa somma di denaro persa dall'uomo scommettendo su una corsa, tutti i creditori si presentano infuriati alla porta di casa, minacciando provvedimenti spiacevoli qualora non rientrino in possesso di almeno una parte del credito entro il giorno successivo. L'uomo urla alla donna che la famiglia è in pericolo, e che per scongiurare il peggio occorrono "sacrifici": sostanzialmente chiede alla moglie di aumentare ulteriormente la sua "paghetta", affinchè lui possa ripianare parte dei suoi debiti. Non solo: l'uomo chiede anche alla moglie di vendere una piccola parte dei suoi gioielli e cimeli di famiglia, consegnando a lui tutto il ricavato (ovviamente non fa alcuna menzione alla sua preziosa collezione di francobolli, o a quelle di fumetti possedute dai figli). Cosa deve fare, secondo te, la povera protagonista della nostra storia? Piegarsi anche questa volta alla volontà del marito dissoluto, sprecone, fannullone e violento? Oppure iniziare a farsi valere, al limite adombrando ipotesi estreme come quella di un divorzio, malgrado il sentimento che ancora nutre verso di lui? COSA SUGGERIRESTI ALLA DONNA IN QUESTIONE? Ah, per tua informazione: 1) La donna si chiama "Italia", il marito si chiama "Stato", i quattro figli si chiamano "Inps" (il primogenito),"Regione", "Provincia" e "Comune". 2) Se aggiungi otto zeri alle cifre della storia che ti ho raccontato, ottieni*: 1.548.816.000.000 = il prodotto interno lordo italiano nel 2010, 397.500.000.000 = le entrate fiscali nazionali nel 2010, 789.896.160.000 = il prelievo totale sulla base del 51% di pressione fiscale REALE** 751.400.000.000 = spesa statale nel 2010, 1.843.015.000.000 = stock di debito pubblico a fine 2010, 450.000.000.000 = valore approssimativo del patrimonio pubblico cedibile a fine 2010***. *: dati da www.istat.it **: stima da www.cgiamestre.com ***: stima da www.brunoleoni.it

giovedì 2 ottobre 2014

Da 10 a 20 mila euro l’anno netti In busta l’80% del costo aziendale Ecco come funziona la proposta del maxi-job presentata da Luca Ricolfi

L’idea del maxi-job è di consentire alle aziende di creare nuovi posti di lavoro a tempo pieno (di qui il prefisso “maxi”) e ai lavoratori di percepire l’80% del costo aziendale, anziché il 50% circa, come attualmente succede per la maggior parte dei contratti. La presentazione che segue illustra solo alcuni principi generali, che richiedono di essere tradotti in un disegno di legge. 

Come funziona  
Fatto 100 il costo aziendale, il lavoratore percepisce in busta paga l’80% di esso. La differenza fra il costo aziendale e la busta paga viene automaticamente destinata a due impieghi: 
a) versamento all’INPS per l’assicurazione pensionistica e sanitaria, con conseguente abbattimento dell’imponibile; 
b) pagamento integrale dell’Irpef dovuta. 
L’importo versato all’INPS è esattamente pari alla somma che “rimane” dopo il pagamento integrale dell’Irpef. 
La retribuzione netta in busta paga non può essere inferiore a 10 mila euro l’anno (di qui il prefisso “maxi”, che distingue nettamente il maxi-job dai mini-job della Germania) e non può superare i 20 mila euro l’anno. 

Un esempio  
Con il maxi-job più economico (10 mila euro annui in busta paga) il lavoratore percepisce 12.500 euro lordi così suddivisi: 
10.000 in busta paga 
1.800 euro accantonati a fini pensionistici (Inps) 
700 pagamento IRPEF 
Il costo aziendale è 12.500 euro, quasi interamente trattenuti dal lavoratore (10.000 subito, in busta paga; 1.800 accantonati a fini previdenziali). 

Quali aziende possono attivarlo  
Il maxi-job è un contratto riservato alle aziende, di qualsiasi forma giuridica, sia pre-esistenti sia di nuova costituzione, che incrementano il numero di occupati. Per lavoratori “occupati” si intendono i lavoratori dipendenti in senso proprio (compresi gli apprendisti) e i CoCoPro; dal computo degli occupati sono invece esclusi gli stagisti e le partite IVA. 
Nel caso di aziende già esistenti, il contratto può essere attivato per un numero di lavoratori pari all’incremento occupazionale annuo. Se, ad esempio, fra il 2013 e il 2014 un’azienda passa da 10 dipendenti a 12 può attivare 2 maxi-job, perché ha incrementato l’occupazione di 2 unità. Dopo il primo anno il contratto di maxi-job può essere rinnovato per un periodo massimo di 3 anni, purché l’azienda che nel primo anno ha aumentato l’occupazione non la diminuisca nel periodo di rinnovo del maxi-job. 
Nel caso delle aziende di nuova costituzione il maxi-job può essere attivato solo se l’azienda assume un soggetto alla sua prima occupazione, oppure un lavoratore inoccupato da almeno 1 anno. 

Quali lavoratori possono usufruirne  
Il maxi-job non è riservato a categorie particolari di soggetti. Chiunque può essere assunto con il maxi-job, anche da aziende differenti in periodi differenti. 
L’unico caso in cui un lavoratore non può essere assunto con un contratto di maxi-job è quello in cui abbia già usufruito di uno o più contratti di maxi-job per un periodo complessivo superiore a 3 anni (in tal caso aggiungere 1 anno ai 3 anni passati farebbe sforare il tetto complessivo dei 4 anni). 

Durata del contratto  
Il maxi-job è un contratto a tempo determinato o a tempo indeterminato con durata minima di 1 anno. 
Nel caso esso sia a tempo determinato la sua durata massima è di 4 anni. 
Nel caso sia a tempo indeterminato, al temine del 4° anno si trasforma automaticamente in un contratto ordinario a tempo indeterminato, con tutti gli oneri ad esso connessi. 

Perché si autofinanzia  
Apparentemente, il maxi-job determina una riduzione del gettito della Pubblica Amministrazione, sotto forma di un minore flusso di contributi previdenziali. In realtà si può mostrare (vedi articolo accanto) che il gettito della Pubblica Amministrazione si riduce solo se il numero di posti di lavoro aggiuntivi creati dall’introduzione del maxi-job è molto modesto.  
Bisogna considerare, infatti, che i contributi INPS non sono le uniche entrate della Pubblica Amministrazione, e che tutti i posti di lavoro in più, che non sarebbero nati senza i vantaggi del maxi-job, creano valore aggiunto addizionale, e generano quindi un flusso di introiti fiscali aggiuntivo attraverso tasse come Iva, Irpef, Ires, Irap, per citare solo alcune fra le più “pesanti”. 
Fatto 100 l’incremento occupazionale senza maxi-job, bastano 33 posti addizionali per garantire che gli introiti della Pubblica Amministrazione non si riducano. Se i posti addizionali sono più di 33, il gettito della Pubblica Amministrazione anziché diminuire aumenta. 

Sanzioni contro l’uso improprio  
La legge prevede sanzioni nel caso di uso improprio del maxi-job. Per uso improprio si intendono tutti i casi nei quali l’incremento occupazionale è fittizio. Ad esempio: la singola azienda aumenta l’occupazione ma una o più aziende “cugine”, controllate dal medesimo soggetto, la riducono; oppure: l’azienda che usufruisce del maxi-job viene costituita grazie alla chiusura di altre aziende collegate.

giovedì 5 giugno 2014

6 anni son passati e non è cambiato nulla

anzi tutto è peggiorato , il declino è sempre più rapido, la medicina peggio della malattia, basta stato ladro che ci ruba dalle nostre tasche per far sopravvivere una classe parassita, lo ha capito anche mio figlio davide di 8 anni

lunedì 12 novembre 2012

tagliare le tasse tagliare le spese

indispensabile tagliare le tasse così come è necessario tagliare le spese , il paese è sull'orlo del baratro e si continua ad alzare le tasse a chi già le paga , si deprimono i consumi e si contrae l'econmia con ulteriore perdita di posti di lavoro.
alla faccia del governo tecnico l'unica possibilità è fermare il declino aderite sul sito http://www.fermareildeclino.it/

martedì 9 ottobre 2012

ma chi li vuole questi pazzi al governo ?

La bastonata del governo arriva di notte
ma cosa stanno facendo manovre recessive in recessione, stagnazione crisi economica come diavolo la volete chiamare
bisogna tagliare tagliare 
professore bocciato 


fermare il declino


10 interventi per la crescita

  • 1)
    Ridurre l'ammontare del debito pubblico. E' possibile scendere rapidamente sotto la soglia simbolica del 100% del PIL anche attraverso alienazioni del patrimonio pubblico, composto sia da immobili non vincolati sia da imprese o quote di esse.
  • 2)
    Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell'arco di 5 anni. La spending review deve costituire il primo passo di un ripensamento complessivo della spesa, a partire dai costi della casta politico-burocratica e dai sussidi alle imprese (inclusi gli organi di informazione). Ripensare in modo organico le grandi voci di spesa, quali sanità e istruzione, introducendo meccanismi competitivi all’interno di quei settori. Riformare il sistema pensionistico per garantire vera equità inter—e intra—generazionale.
  • 3)
    Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni, dando la priorità alla riduzione delle imposte sul reddito da lavoro e d'impresa. Semplificare il sistema tributario e combattere l'evasione fiscale destinando il gettito alla riduzione delle imposte.
  • 4)
    Liberalizzare rapidamente i settori ancora non pienamente concorrenziali quali, a titolo di esempio: trasporti, energia, poste, telecomunicazioni, servizi professionali e banche (inclusi gli assetti proprietari). Privatizzare le imprese pubbliche con modalità e obiettivi pro-concorrenziali nei rispettivi settori. Inserire nella Costituzione il principio della concorrenza come metodo di funzionamento del sistema economico, contro privilegi e monopoli d'ogni sorta. Privatizzare la RAI, abolire canone e tetto pubblicitario, eliminare il duopolio imperfetto su cui il settore si regge favorendo la concorrenza. Affidare i servizi pubblici, incluso quello radiotelevisivo, tramite gara fra imprese concorrenti.
  • 5)
    Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell'impresa in cui lavoravano, devono godere di un sussidio di disoccupazione e di strumenti di formazione che permettano e incentivino la ricerca di un nuovo posto di lavoro quando necessario, scoraggiando altresì la cultura della dipendenza dallo Stato. Il pubblico impiego deve essere governato dalle stesse norme che sovrintendono al lavoro privato introducendo maggiore flessibilità sia del rapporto di lavoro che in costanza del rapporto di lavoro.
  • 6)
    Adottare immediatamente una legislazione organica sui conflitti d'interesse. Imporre effettiva trasparenza e pubblica verificabilità dei redditi, patrimoni e interessi economici di tutti i funzionari pubblici e di tutte le cariche elettive. Instaurare meccanismi premianti per chi denuncia reati di corruzione. Vanno allontanati dalla gestione di enti pubblici e di imprese quotate gli amministratori che hanno subito condanne penali per reati economici o corruttivi.
  • 7)
    Far funzionare la giustizia. Riformare il codice di procedura e la carriera dei magistrati, con netta distinzione dei percorsi e avanzamento basato sulla performance; no agli avanzamenti di carriera dovuti alla sola anzianità. Introdurre e sviluppare forme di specializzazione che siano in grado di far crescere l'efficienza e la prevedibilità delle decisioni. Difendere l'indipendenza di tutta la magistratura, sia inquirente che giudicante. Assicurare la terzietà dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Gestione professionale dei tribunali generalizzando i modelli adottati in alcuni di essi. Assicurare la certezza della pena da scontare in un sistema carcerario umanizzato.
  • 8)
    Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne, oggi in gran parte esclusi dal mercato del lavoro e dagli ambiti più rilevanti del potere economico e politico. Non esiste una singola misura in grado di farci raggiungere questo obiettivo; occorre agire per eliminare il dualismo occupazionale, scoraggiare la discriminazione di età e sesso nel mondo del lavoro, offrire strumenti di assicurazione contro la disoccupazione, facilitare la creazione di nuove imprese, permettere effettiva mobilità meritocratica in ogni settore dell’economia e della società e, finalmente, rifondare il sistema educativo.
  • 9)
    Ridare alla scuola e all'università il ruolo, perso da tempo, di volani dell'emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Non si tratta di spendere di meno, occorre anzi trovare le risorse per spendere di più in educazione e ricerca. Però, prima di aggiungere benzina nel motore di una macchina che non funziona, occorre farla funzionare bene. Questo significa spendere meglio e più efficacemente le risorse già disponibili. Vanno pertanto introdotti cambiamenti sistemici: la concorrenza fra istituzioni scolastiche e la selezione meritocratica di docenti e studenti devono trasformarsi nelle linee guida di un rinnovato sistema educativo.Va abolito il valore legale del titolo di studio.
  • 10)
    Introdurre il vero federalismo con l'attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Un federalismo che assicuri ampia autonomia sia di spesa che di entrata agli enti locali rilevanti ma che, al tempo stesso, punisca in modo severo gli amministratori di quegli enti che non mantengono il pareggio di bilancio rendendoli responsabili, di fronte ai propri elettori, delle scelte compiute. Totale trasparenza dei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle società partecipate da enti pubblici con l'obbligo della loro pubblicazione sui rispettivi siti Internet. La stessa "questione meridionale" va affrontata in questo contesto, abbandonando la dannosa e fallimentare politica di sussidi seguita nell'ultimo mezzo secolo.